Il paradosso dell’ignoranza

Rubrica: Le mie teorie
Titolo o argomento: Più studio e più divento ignorante
Autore: Raffaele Berardi (Ralph DTE)

Quella che segue è una teoria che ho elaborato di recente, la mia quarta per l’esattezza dopo la teoria degli accostamenti, quella dell’ingranamento e quella del contrario. Se amate stuzzicare la vostra mente, potreste trovarla più normale della normalità.

Premessa

Io studio perchè ho bisogno di acquisire informazioni che sono utili per districarmi in questo mondo. Finché io studio “normalmente” posso non accorgermi di quanto è in oggetto in questo paradosso. Se supero un certo limite ed inizio a studiare intensamente inizio anche a rendermi conto di quante cose non so, inizio a rendermi conto di essere ignorante, inizio a rendermi conto di “sapere di non sapere” (Socrate). Più mi istruisco e più mi rendo conto di non sapere, più studio e più mi accorgo di essere ignorante. Tendendo all’infinito, ossia cercando di istruirmi notevolmente, mi accorgo sempre più di quante cose non so e di come quel poco che so rappresenti nient’altro che un infinitesimo della conoscenza (indefinita).

Quindi più studio e più sono ignorante

Ovviamente trattasi di una provocazione mentale. E’ proprio vero il concetto, oppure no? Infatti non è vero che più studio e più sono ignorante bensì che più studio e più “mi rendo conto” di essere ignorante. Sarebbe quindi opportuno definire la differenza tra essere ignorante e rendersi conto di essere ignorante.

Il rapporto che definisce l’ignoranza

Per ogni pezzettino di conoscenza acquisita in più, scopro l’esistenza di un’enorme mole di conoscenza che non ho. Pertanto nel rapporto tra conoscenza acquisita e percezione della conoscenza che non si possiede, più si va avanti nello studio e più il rapporto diventa grande definendo di fatti il soggetto in questione come uno maggiormente ignorante rispetto ad uno con minori conoscenze ma, allo stesso tempo, minore percezione circa la conoscenza.

Più precisamente definisco:
Coefficiente di conoscenza Kc = Conoscenza acquisita Ca / Percezione della conoscenza che non si possiede Cm

Tasso di ignoranza i = 1 / Coefficiente di conoscenza Kc

Minore è il coefficiente Kc che deriva dal primo rapporto e maggiore è il tasso di ignoranza.
Esempio

Ammettiamo ad esempio che la mia conoscenza acquisita valga 10, livello al quale io mi accorgo di non conoscere 5 e che migliorando i miei studi io arrivi ad una conoscenza acquisita pari a 30 ove ora però mi accorgo di non conoscere 60. Se al precedente livello il mio coefficiente di conoscenza valeva 10/5 = 2, cui corrisponde un tasso di ignoranza “i” pari a 1/2 = 0,5, ora il coefficiente di conoscenza vale 30/60 = 0,5 che corrisponde ad un tasso di ignoranza “i” pari a 1/0,5 = 2.

Esempio

In sostanza ad un primo step conosco 1/10 poi, studiando una cosa nuova, mi accorgo che i concetti sono molti di più di quanto potessi immaginare ed al secondo step conosco 2/100. Andando ulteriormente avanti studio ancora una cosa in più e di nuovo mi accorgo che al terzo step conosco ad esempio 3/1000. Il coefficiente di conoscenza cala sempre di più rendendomi di fatto sempre più ignorante nonostante io abbia studiato di più ed abbia acquisito più nozioni. Sto diventando sempre più ignorante o meglio sto rendendomi conto sempre di più di quante cose non so ed è proprio su questo che gioca il Paradosso dell’ignoranza il quale vede ciò che inizialmente si ignora come un qualcosa che non ci definisce ignoranti finché non ne percepiamo la presenza anche se poi, in ogni caso, non ne conosciamo i contenuti.

Nota conclusiva

Come è possibile quindi che più studio e più divento ignorante? Non è la quantità di concetti assimilati che definisce in “modo assoluto” quanto siamo preparati; è la percezione di quante cose non sappiamo che determina di fatto quanto siamo ignoranti nelle tali discipline. Andare intensivamente oltre lo studio di base permette effettivamente di percepire in modo chiaro questo fenomeno rendendo così ancora più patetica la figura del saccente, già poco gradita per l’antipatia che richiama a sé.

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Problemi intergenerazionali di comunicazione

Rubrica: Metodi. Alternative al mondo abituale.

Titolo o argomento: Dalla comunicazione alla storia, ecco perchè le cose non vanno

La storia, quella vera, intatta, aderente alla realtà, si tramanda. Attenzione, non con un testo ridondante, risonante e ripetitivo che perfora il cervello (…), si tramanda con degli insegnamenti, dei metodi, delle lezioni di vita. Quando non c’è comunicazione tra una generazione e l’altra, quando le esigenze cambiano e l’apertura mentale scarseggia, è difficile trasferire un concetto o, peggio, aver voglia di farlo. Il risultato è che ogni nuova generazione si trova nel caos ad affrontare ogni volta da zero quelli che, alla base, sono sempre gli stessi problemi del mondo. Se non c’è coesione tra gli uomini subentra il caos, una gran perdita di tempo e, conseguentemente, di opportunità. Un po’ come costruire ogni giorno un piano di un grattacielo per poi disfarlo durante la notte e ricominciare trovandosi così, dopo centinaia d’anni, sempre al primo piano e con niente di fatto (vedi anche una certa Penelope).

Quando non c’è comunicazione tra una generazione e l’altra la storia si dimentica. Quando la storia si dimentica, tutto ciò che di buono può aver fatto la generazione precedente è annullato. Quando non c’è comunicazione subentra il caos e, in simili situazioni qualcuno ci sguazza e vince sempre. Perchè? Perchè se non si mettono d’accordo due persone testarde durante una riunione di condominio, come possono mai mettersi d’accordo, anche se solo a gruppi divisi per paesi, 7 miliardi di persone? Insomma, il banco vince sempre. Ma il banco potrebbe essere truccato.

Se anche il tempo scarseggia nella frenesia della routine giornaliera e i figli sono in balia di baby-sitter, nonni con un entusiasmo attenuato, doposcuola poco formativi che aumentano solo la spesa d’iscrizione, beh allora il disorientamento diviene piuttosto prevedibile. La figura emblematica del papà che insegna al figlio a cacciare, a mandare avanti la fattoria, a diventare un uomo, è quasi del tutto scomparsa. Oggi c’è una console di gioco, un gadget elettronico* e i bambini almeno stanno lì buoni con i genitori, oltremodo stressati e logorati da un mutuo interminabile e paure reconde, che finalmente possono auspicare un timido riposo. Come si può insegnare qualcosa e a chi? Quando e con quali forze, con quali convinzioni, con quali certezze, con quali principi e con quale ardito orgoglio? E se nemmeno chi è assegnato alla responsabilità dell’altrui istruzione se ne occupa, come può una generazione, come quella degli attuali ventenni, anche solo lontanamente immaginare di cambiare almeno qualcosina del mondo? Mumble, mumble… mentre ci pensiamo la crisi dei mercati e, ancor prima dell’individuo, dilaga.

Per comunicare la storia, il progresso, i passi dell’uomo, i possibili futuri obiettivi, ci vuole tempo ed energia; non si mette in discussione il lavoro, nonché la fatica e l’impegno che questo, se condotto responsabilmente, comporta, ma con l’elevato livello di stress (vicino al punto di rottura) dell’attuale società risulta improbabile trasmettere qualcosa di virtuoso a chi verrà. Il banco vince ancora una volta.

Note

Se avete ipotizzato che con il termine “banco” si vuole intendere chi detiene una qualche forma di potere, sappiate che in realtà non è esattamente così. Il banco è costituito da tutti coloro che, per abbandonare uno sforzo, preferiscono evitare di occuparsi di un problema o di prenderne atto o di elaborarlo in qualunque modo che comporti uno sforzo mentale o fisico che sia. Quando una collettività va male, il problema, sebbene possa essere influenzato da terzi, è da attribuire principalmente alla collettività stessa che evita di compiere degli sforzi pur intuendo che qualcuno o qualcosa sta causando dei problemi. Come a dire che se mai nessuno inizia a cambiare anche solo un piccolo pezzettino di mondo che lo circonda, nulla cambia e raggiungere un obiettivo, talvolta anche semplice, sembra impossibile pur avendolo lì, a un palmo di distanza.

*Spesso fraintesi con la terra della fertile tecnologia che in realtà è ben altro.

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Un intrigo logico sul tema “raggiungere”:
Il paradosso di Zenone (o di Achille e la tartaruga)

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Image’s copyright: khamneithang.wordpress.com

L’evoluzione dell’ignoranza

Per molto tempo l’ignoranza è stata attribuita soprattutto a coloro che hanno terminato gli studi troppo presto o a coloro che non hanno mai avuto modo di affrontare un percorso di studi. In questa fascia si inserivano spesso nonni o bisnonni che ai tempi della guerra avevano ben altri pensieri. Successivamente il termine ignoranza è stato abbinato troppo facilmente (talvolta erroneamente) a persone di generazioni precedenti a quelle attuali solo per questioni di incompatibilità nelle esigenze e nei modi di vedere modificatisi nel tempo.

Oggi invece l’ignoranza ha subìto una forte evoluzione. Sebbene possa sembrare un paradosso, è così. L’ignoranza oggi non è propria solo di coloro che non hanno “studiato” bensì anche di una fetta di laureati…

Mi capita sempre più spesso di parlare con laureati che, una volta acquisito il “pezzo di carta”, credono di sapere tutto… Nessuno deve più insegnar loro nulla. Hanno preso una laurea su una specializzazione ma sono saccenti in tutte le scienze possibili immaginabili. Si caricano da soli e tutto questo per una laurea che oggi prendono tanti, ma proprio tanti giovani.

L’ignoranza non scompare con una laurea; l’ignoranza scompare nelle menti aperte, le menti che sanno immedesimarsi nei panni altrui, le menti imparziali, le menti che valutano ogni cosa obiettivamente, le menti che non smettono mai di studiare, le menti che sanno applicare un metodo di studio, che sanno ricercare nuove fonti alle quali attingere, le menti che evolvono i loro pensieri, che vogliono imparare cose nuove e sanno come farlo, le menti che non sono mai come il giorno prima, le menti che crescono, cercano e offrono nuovi stimoli, le menti che osservano, ascoltano.

Dice Piero Pelù in una canzone fatta con i Litfiba:

“Non è la fame ma è l’ignoranza che uccide…”

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